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L’uomo che cade. Un’eredità di Calvino

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Trent’anni dopo la sua morte, va riconosciuta a Calvino un’identità netta, fra le altre possibili, di scrittore razionalista messo di fronte all’irrazionalità profonda di un mondo che si sviluppa verso la sua estinzione senza la possibilità di trovare un appiglio. A rileggere le sue opere cercando di scansare la lettura di un Calvino mercuriale, limpidamente sereno, persino olimpico nel suo equilibrio continuamente aggiornato, continua a sorprendere quanto lo scrittore ligure abbia raccontato, più o meno nel corso di tutta la sua produzione, l’avventura di una mente rigorosa fino all’estremo, capace però, a ogni passo, di specchiarsi nel suo rovescio radicalmente negativo. C’è dietro una personalità autoriale che si mostra soprattutto quando viene meno quasi del tutto, con gli anni Sessanta, la diretta vocazione civile e politica della sua scrittura, dopo il congedo provvisorio della Giornata di uno scrutatore (1963); trova la sua piena realizzazione nel Calvino più “francese”, immaginifico e combinatorio che affiorerà con più decisione dagli anni Settanta in poi, dedito a guardare di traverso una contemporaneità demente, via di mezzo fra Leonia e un mostro che continuamente fagocita se stesso. Rafforzano i loro motivi d’essere, nello stesso periodo, le elegantissime geometrie verbali, lo stile polito e privo di asperità, attentamente variato e mai fuori tempo, ma soprattutto, in profondità, certe ossessioni tematiche («le figure del carcere, del labirinto, della trappola attraversano come un filo rosso l’opera calviniana»[1]) che, se da un lato costituiscono una reazione all’indecifrabilità collettiva, dall’altra inquadrano chi scrive come un uomo assediato e in trappola, un Robinson Crusoe non più capace (e nemmeno interamente convinto) di poter riscattare il suo naufragio con un inesausto lavoro di civilizzazione.

 

La razionalità estrema dispiegata nei racconti di Calvino, in questa interpretazione, è una reazione simmetrica a un’oscurità oggettiva dell’esistente (Barenghi ha notato, sui procedimenti mentali: «lo stile di pensiero di Calvino non è dialettico, bensì antinomico: la sua attenzione si concentra sempre sull’interrelazione, sulla dipendenza e sul condizionamento reciproco che si creano fra termini opposti»[2]): una sfida in cui la ragione si accosta precaria alla muta resistenza delle cose, nel continuo timore che i due estremi di cosmos e caos, attraendosi, finiscano per annullarsi. Nell’episodio di Palomar intitolato Palomar allo zoo (che esce su «Repubblica» nel 1980) l’antinomia è incisa sulla figura di un gorilla albino che il signor Palomar osserva allo zoo. L’animale vive abbracciato a un copertone d’auto che acquisisce per lui un fondamentale valore simbolico:

Forse immedesimandosi in esso [nel copertone] il gorilla è sul punto di raggiungere al fondo del silenzio le sorgenti da cui scaturisce il linguaggio, di stabilire un flusso di rapporti tra i suoi pensieri e l’irreducibile sorda evidenza dei fatti che determinano la sua vita…[3]


La visione del gorilla albino è per Palomar perturbante al massimo grado («La notte, tanto nelle ore d’insonnia quanto nei brevi sogni, continua ad apparirgli lo scimmione», RR, II, 944) proprio perché riflette, in un più ampio sottinteso, il tentativo disperato di raggiungere un senso attraverso i gusci vuoti delle parole. Non è una ragione fiduciosa e serena a trasvolare nelle prose di Calvino, ma una che conosce il suo spettro e cerca continuamente di esorcizzarlo, come ha evidenziato fra i primi Alfonso Berardinelli nella sua critica accesa:

Calvino è soprattutto un bambino che fugge da un pericolo ridendo di paura, perché confessare la paura sarebbe impossibile al suo stile. Il suo stile è anzitutto questo: difficoltà o impossibilità di confessare paura, ripugnanza, odio, sconforto, desolazione, amore deluso, e ogni genere di passioni toccate o anche solo sfiorate dall’infelicità[4].


Così, la scrittura, via via più esplicitamente con gli anni, diviene il continuo sporgersi sul ciglio di un abisso, senza mai guardare giù. Al contrario, preferisce volgere lo sguardo alla creazione di perfette architetture eteree, benché niente affatto consolatorie (come nelle Città invisibili), ai giochi metafinzionali del periodo oulipien (come nel Castello dei destini incrociati e in Se una notte d’inverno un viaggiatore). Possiamo dare ancora credito al signor Palomar, quando in un dialogo del 1983 non incluso nella raccolta omonima con l’alter ego Mohole nota circa il suo continuo esercizio di auto-osservazione: «le immagini di me rivelatrici e compromettenti che mi pareva di essere sul punto di cogliere mi comunicavano un disagio incompatibile con la calma della mente che è necessaria per capire» (RR, III, 1170-1171). A volte, l’esercizio costante del pensiero vorrebbe sovvertire quelle leggi immutabili di nascita, lotta e morte di cui si avverte il pericolo: è uno dei temi portanti di Ti con zero, fin dal racconto omonimo, a pensarci un attimo, infinito negli approcci e privo di soluzioni. Altrove, si trova per esempio nella tentazione di Palomar di scomporre le onde del mare per ricacciarle indietro:

Forse il vero risultato a cui il signor Palomar sta per giungere è di far correre le onde in senso opposto, di capovolgere il tempo, di scorgere la vera sostanza del mondo al di là delle abitudini sensoriali e mentali? No, egli arriva fino a provare un leggero senso di capogiro, non oltre. L’ostinazione che spinge le onde verso la costa ha partita vinta: di fatto, si sono parecchio ingrossate. (RR, II, 879)

 

Ma non si può arrestare il moto fisico di un’onda, al modo in cui non si può rimuovere, nell’interazione col mondo, la presenza detestabile di un Io che continua a frapporsi, ad alterare la ricezione e la prospettiva con la sua impurità. Il desiderio di sovvertire le leggi dell’esistenza va di pari passo con l’aspirazione a non esserci, che a sua volta è la più atroce delle utopie, in quanto per Calvino «il mondo non può guardare il mondo senza passare per l’io, la finestra non è una pura intercapedine e la sua trasparenza non è postulabile; pertanto l’io va considerato come il limite del mondo»[5]. Questo limite è il soggetto individuato nel suo precipitare verso la morte. Il termine “precipitare” è scelto perché rispecchia bene una concezione della narrativa che Calvino detiene sin dagli anni ’50. In un questionario uscito sulla rivista «Ulisse» nell’inverno 1956-1957, l’autore riflette:

Adesso per convincerci di una intramontabile signoria del romanzo abbiamo bisogno di leggere Lukàcs, lasciarci prendere dalla sua classicistica fede nei generi, dal suo nitido senso dell’epica. Ma, usciti dall’Ottocento, il suo ideale estetico s’appanna di una soffice patina di noia: non vi ritroviamo il nervosismo, la fretta del nostro vivere, cui hanno risposto non più il romanzo costruito, ma il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda in cui Hemingway eccelse, come la perfetta misura della nuova epica. C’è Thomas Mann, si obietta; e sì, lui capì tutto o quasi del nostro mondo, ma sporgendosi da un’estrema ringhiera dell’Ottocento. Noi guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale[6].

 

La fiducia nei generi, la distanza, l’andatura ampia e rallentata del romanzo ottocentesco non sono più possibili, ci viene detto. Nella metafora usata per gli scrittori novecenteschi, c’è già l’immagine dell’autore come un uomo che cade e riconosce di non avere alcun potere sulla sua traiettoria, purtroppo incontrollabile per ragioni storiche (che prevalgono nella prima parte del percorso di Calvino, fino alla Giornata di uno scrutatore) non meno che “esistenziali”, magari intrappolate nella maniera degli intrecci biotestuali o in dislocazioni fantastiche (Cosmicomiche) e curiose utopie senza progetto (Le città invisibili). Insistendo nella metafora, il narratore di Calvino, che sa di stare precipitando, non riesce, per via del suo movimento fuori controllo, ad afferrare con lo sguardo ciò che ha intorno, come invece potrebbe fare se fosse stabile. Perciò, gli rimangono due opzioni: può cercare una rapidità narrativa e un’agilità che col passare degli anni trovano sempre meno giustificazioni (di questo parla, a lungo, Berardinelli); più di frequente, può scegliere di rallentare, di cristallizzare gli oggetti che gli sfrecciano davanti con l’artificio di una descrizione che arresti il tempo della storia. Per quanto riguarda il posto dell’io, il narratore calviniano concepisce se stesso come una presenza ferma, minerale, ancora aperta a tutte le combinazioni del possibile e chiusa a ogni psicologia; poiché esistere nel tempo lo pone in un disagio eccessivo, cerca di scomporre la sua temporalità in una serie infinita di stasi, per rallentare la caduta, invano. È chiaro, lo era anche a Calvino, che l’uomo in caduta non può che sfracellarsi al suolo, avverando un’intima evidenza iniziale (come ci mostra un narratore consapevole, il signor Palomar «decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore», RR, II, 979). Nondimeno, questa consapevolezza è introiettata nella sua andatura e va di pari passo con la reazione più forte e frequente del Calvino narratore, che riguarda il senso della vista, nella sfumatura di: distogliere lo sguardo.

 

Un lungo discorso si potrebbe fare proprio sulle ambiguità dell’atto della visione per Calvino. In un’ennesima antinomia, al tentativo inesausto di osservare le immagini e scomporle, per capirle meglio si accompagna lo sforzo di non voler vedere. È significativo che proprio il primo, fortunatissimo racconto pubblicato dall’autore nel dopoguerra, Andato al comando (uscito sul «Politecnico» nel gennaio del 1946), si giochi tutto su un personaggio che rifiuta di comprendere la sua condanna imminente. Nel breve racconto, il protagonista è una spia fascista e finisce fucilato da un partigiano che l’ha scoperto. Il tono del narratore non è però di condanna verso il suo personaggio, ma di tenue partecipazione: ambiguamente, ci s’identifica. Lo comprendiamo meglio guardando all’uso stilistico di una terza persona che trasmette però esclusivamente il punto di vista della spia. La soluzione prospettica (narratore “esterno” che racconta da dietro la spalla e, spesso, da dentro la testa del suo protagonista) rigetta l’onniscienza e preferisce seguire da vicino la sfida-caduta dei suoi personaggi alter ego. È una scelta che riflette il desiderio di «indicare delle prospettive di approccio alla realtà, delle direzioni tendenziali»[7], e Calvino la perseguirà con costanza nel suo lavoro fino al già citato Palomar, come ha notato Mengaldo: «sempre più Calvino nel corso della sua carriera tende a servirsi di narratori intermediari e interni, variamente compartecipi dell’esperienza, dell’ethos e quindi anche del linguaggio dei personaggi di cui narra»[8]. Tornando ad Andato al comando, colpisce a rileggerlo oggi soprattutto il rifiuto illogico della spia di comprendere la propria condanna a morte. Catturata, continua a ripetersi di non essere stata scoperta anche quando il suo accompagnatore la porta nel bosco col palese intento di giustiziarla («se lo avessero creduto una spia non l’avrebbero lasciato così nel bosco, solo con quell’uomo che sembrava non gli badasse nemmeno», RR, I, 263); pensa di poter controllare l’itinerario anche se, di fatto, quando prova a scappare per salvarsi, si accorge che l’accompagnatore, armato, la insegue e la tiene sempre sotto mira. Infine, quando i giochi si scoprono e il partigiano le punta contro il fucile, la spia si ostina nel suo autoconvincimento (pensa: «A salve, a salve spara»), contro ogni evidenza terribile, persino un attimo dopo essere stata fucilata («Crede d’avermi ucciso, invece vivo», RR, I, 265). Il rifiuto di capire resiste fino alla fine, opposto all’insensatezza della morte: è una costante che si ripeterà nella produzione di Calvino, per non contare qualche ripresa intertestuale più vicina (per dire: Vecchio Blister di Beppe Fenoglio, di poco successivo, ha qualche debito con Andato al comando). Infine, troverà il suo compimento più esplicito nelle sezioni delle opere che più da vicino intrattengono un rapporto con la fine dell’io, della vita: i finali dei racconti.

 

I finali di Calvino ci dicono molto sulla sua scrittura per come si è cercato di descriverla: spesso meditabondi, a volte si sbilanciano verso scarti impossibili o aperture che in realtà “non chiudono” le questioni dispiegate dallo scrittore. Le conclusioni in Calvino non sono mai luoghi risolutivi, dove si nascondano le chiavi dell’opera: possono essere semplicemente provvisorie e lasciare in sospeso un discorso disordinatamente aperto, oppure essere troncate dalla morte che si era tentato di esorcizzare (il già ricordato Palomar). Ciò si nota nelle opere di lungo respiro, di articolazione vicina al romanzo o all’opera organica, più che nei singoli pezzi brevi. Prendiamo la trilogia degli anni ’50 dei Nostri antenati. Nel Visconte dimezzato il protagonista rimane solo con le sue fantasie «in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui» (RR, I, 444), abbandonato dal dottor Trelawney; nel Barone rampante Cosimo si trae dalla sua vita sugli alberi appendendosi a una mongolfiera, e va incontro a una morte-sparizione in mare che sa di una beffa irrisolta nei confronti dell’umanità; il Cavaliere inesistente invece si chiude con una fuga impaziente della narratrice Teodora-Bradamante con Rambaldo, verso un futuro senza forma, aperto a ogni possibilità, dove l’entusiasmo costeggia la vertigine del vuoto. Né la sostanza cambia con l’opera forse più apertamente dolorosa, fedele alla terra, cioè La giornata di uno scrutatore. Di fronte ai malati del Cottolengo, alla sua prossima paternità esitante, ai dubbi sulla militanza, Amerigo Ormea finisce le sue giornate senza risposte, limitandosi a guardare. Nell’ultima scena di osservazione da una finestra, sovrappone alla micro-città dei malati una città invisibile in cui, utopisticamente, si possano superare le storture del contemporaneo: «Anche l’ultima città dell’imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l’ora, l’attimo, in cui in ogni città c’è la Città» (RR, II, 78). È però la fantasia di un attimo, una speranza cava che non riscatta quasi nulla della giornata trascorsa, non le fornisce giustificazioni.

 

Se il racconto di Calvino assume la forma dell’itinerario drammatico di una ricerca di senso, l’inchiesta finisce inevitabilmente su un binario vuoto. In Se una notte d’inverno un viaggiatore si vede particolarmente bene, con il Lettore che, ogni volta sulle piste di un libro diverso, deraglia a ogni capitolo per sfortuna o per incapacità di riunire i fili, si perde, finisce su un’altra strada che lo porta più distante da un obiettivo iniziale che forse non esisteva, per quanto poco riesce a ricordarlo. Quando, alla fine, egli si trova in biblioteca a chiedere i romanzi fin lì cercati, per un motivo o per l’altro questi non sono reperibili. Di fronte all’impossibilità di continuare la storia, di capirci qualcosa, il personaggio noto come il “settimo lettore” pone il Lettore davanti al bivio cieco della narrazione e, in cornice, dell’esistenza: «Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte» (RR, II, 869). A ciò il Lettore reagisce con una decisione d’istinto («Poi fulmineamente decidi che vuoi sposare Ludmilla», Ibidem) che gli fa accantonare bruscamente tutte le avventure fin lì lette e vissute. La scena conclusiva delle letture serali nel letto matrimoniale non modifica di una virgola i nodi da sciogliere, ma serve a riallacciarci all’evasione del metaracconto («Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino», RR, II, 870) che, riannodandosi al suo inizio, rinforza la cornice manieristica.

 

Persino il finale delle Città invisibili potrebbe essere interpretato come una presa d’atto dell’impossibilità (e del rifiuto) di capire, comune a tante conclusioni calviniane. Per tanti lettori e scrittori delle nuove generazioni, ha contato moltissimo come morale provvisoria il celebre appunto di Marco Polo («L’inferno dei viventi non è quello che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui […] cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio», RR, II, 497-498). Ma perché non vederla, meno nobilmente, come una sentenza di buon senso, una mossa retorica con cui Marco Polo cerca di trarsi d’impaccio dalle panoramiche insolubili che insieme al Khan ha mostrato? Prendiamo la meno fantastica, la più agghiacciante delle città descritte, Perinzia. Viene edificata secondo le esatte indicazioni dei più grandi astronomi del regno, per garantirle il più fausto dei destini sotto l’influsso benevolo dei numi celesti. Come risultato, nel giro di poco tempo si popola di «storpi, nani, gobbi, obesi, donne con la barba» (RR, II, 480), i più fortunati: nei sotterranei «le famiglie nascondono i figli con tre teste o con sei gambe» (Ibidem). Dunque, si conclude, o i ragionamenti degli astronomi non servono a nulla, oppure «l’ordine degli dei è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri» (Ibidem). Nel racconto di Perinzia, che dialoga da vicino con La giornata di uno scrutatore, c’è la difficile scelta fra il riconoscimento di una ragione impotente e la possibilità di riconoscere in viso l’orrore dell’esistenza, finendo annientati: Marco Polo, nella sua sentenza conclusiva, non può prendere posizione sulle radici del male, come non la prendono, in generale, i personaggi di Calvino; né può mostrarcene l’origine, la precisa disciplina di combattimento. Ancora, se il Khan nota, nell’ultimo dialogo, che «tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente» (RR, II, 497), si può notare come la frase di Marco Polo stia lì giustapposta, eloquente nella sua evasività. Ciò aiuta a capire che la conclusione è posta a morale provvisoria, da non usare come chiave di volta dell’intera architettura delle Città invisibili. Ma soprattutto, è un ulteriore motivo di fascino per uno scrittore che ha fatto una qualità irrinunciabile del suo distogliere lo sguardo da una Città infernale che mostra ovunque il suo riflesso, e ha provato a costruire, con ostinazione non si sa quanto vana, mille altre città celesti.

 

Riflettendo su quale eredità ci sia arrivata, potremmo tornare a pensare Calvino come lo scrittore, paradossalmente, dal rapporto più irrisolto con l’irrazionale e la morte in tutto il nostro panorama letterario, dalle reazioni più elusive e aggrovigliate. Chiaramente, ciò che rimane a margine, in una lettura di questo genere, è lo stile: ma si potrebbe azzardare che, al di là di alcuni continuatori di varia fortuna dagli anni ’80 in poi (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Dario Voltolini …) esso ha avuto nei fatti meno fortuna che nei discorsi. Carla Benedetti in un bel libro troppo frainteso di quasi vent’anni fa, Pasolini contro Calvino, sosteneva che a essere stato ripreso dallo scrittore ligure non è «il suo stile terso e la sua geometria, che nessuno ormai più tiene a modello. Calvino non ha trasmesso agli scrittori successivi la sua prosa limpida, francesizzante e illuministica, tanto lodata da tutti»[9]: ciò che ha retto, si può aggiungere, è una sua idea di letteratura. Anni dopo, si potrebbe confermare il giudizio – con l’inevitabile appunto, a complicare di molto le cose, che molte delle divergenze su Calvino vertono proprio sulla luce in cui porre questa idea. Una minima proposta da aggiungere alla discussione, per dare più materiale ed evitare il muro contro muro tipico di alcune discussioni sull’argomento: perché non ragionare, se non sulla geometria in sé, sui suoi presupposti e le sue ragioni, pensando a chi, dopo Calvino, ha scritto prosa in Italia?

 

 

Lorenzo Marchese (1989) ha studiato nelle università di Pavia e Pisa. Qui sta svolgendo un dottorato in discipline umanistiche. Si interessa di letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato L'io possibile. L'autofiction come paradosso del romanzo contemporaneo (Transeuropa, Massa 2014).

 

 

[1] Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, il Mulino, Bologna 2007, p. 21, Introduzione. Un po’ di storia (e di geografia).

[2] Mario Barenghi, op. cit., p. 63, Come raccontare in una notte buia e tempestosa [1987].

[3] Italo Calvino, Romanzi e racconti II, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano 1992, p. 944. D’ora in avanti, per facilitare la lettura, le indicazioni dai Romanzi e racconti saranno a testo con la sigla RR, seguita da numero di volume e di pagina.

[4] Alfonso Berardinelli, Calvino moralista. Ovvero, restare sani dopo la fine del mondo in Diario. Rivista di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli 1985-1993 (riproduzione fotografica integrale), Quodlibet, Macerata 2010, p. 723 (VII, 9, febbraio 1991).

[5] Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996, p. 53.

[6] Italo Calvino, Le sorti del romanzo in Saggi I, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1512, 1513-14; originariamente in «Ulisse», X, vol. IV, 24-25, autunno-inverno 1956-1957, pp. 948-950. Un’interpretazione di questo brano nella chiave della visione narrativa si legge nel primo capitolo di Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit.

[7] Mario Barenghi, op. cit., p. 76.

[8] Pier Vincenzo Mengaldo, Aspetti della lingua di Calvino in La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, p. 237.

[9] Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 2012 [1998], p. 20.

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